Mentre tutto questo “non” succedeva,  il Dipartimento nuclearedell’Ispra è andato avanti nella definizione dei criteri. E qui emergono i problemi che sono stati espressi dai parlamentariGianni Girotto e Gianluca Castaldi che lamentano, tra le altre cose, il mancato coinvolgimento della comunità vasta di esperti della materia che “avrebbero potuto fornire un contributo importante anche al di fuori dei detentori di rifiuti radioattivi”. In sostanza non avrebbe avuto alcun ruolo, come è avvenuto in passato, la comunità scientifica che si muove fuori dal perimetro delle aziende che operano nel settore. Pare non l’abbia avuto neppure l’Istituto superiore di sanità che invece aveva partecipato con pareri alla definizione dei criteri di radioprotezione. E questo – sostengono i parlamentari – in violazione di una previsione di legge che compie vent’anni: l’art. 153 del D.lgs n. 230/1995 stabiliva espressamente che l’elaborazione delle linee guida tecniche da parte di Ispra avvenisse “sentiti gli altri enti e organismi interessati”. La “bozza” dei nuovi criteri sarebbe invece arrivata agli “operatori industriali”: il 19 dicembre Ispra ha inviato agli esercenti di impianti nucleari e agli operatori del settore raccolta e deposito il prospetto con i criteri di revisione della Guida per raccogliere le loro osservazioni. E dunque, si profilerebbe il cortocircuito per cui a dettare le regole sarebbero i controllati e non il controllore.
E’ una questione burocratica o di salute pubblica? “E’ singolare che Ispra abbia pensato solo agli operatori industriali del settore e non all’Istituto superiore di sanità”, rilevano il professor Giorgio Parisi, scienziato insignito della medaglia Max Planck per la Fisica teorica che presiede la Commissione scientifica sulDecommissioning istituita dall’associazione “SI alle rinnovabili, NO al nucleare”. E gli fa eco il professor Massimo Scalia, fisico e storico leader ambientalista, che è il presidente del Comitato scientifico dell’associazione. Ispra, contattata dal fattoquotidiano.it, fa sapere che al momento non può rispondere agli interrogativi sollevati a causa degli impegni del direttore del DipartimentoLamberto Matteocci che si sta occupando in prima persona della questione. Lo farà entro una decina di giorni.
Perché si parla di “rischio Italia”
E veniamo alla sostanza, radioattiva: oltre 28 mila metri cubi di rifiuti già presenti nei siti di produzione sparsi sul territorio nazionale e in attesa di sistemazione, altrettanti da produrre con lo smantellamento degli impianti nucleari, il rientro dei rifiuti prodotti in Inghilterra e in Francia con il riprocessamento del combustibile nucleare delle centrali italiane. Come suddividerli e gestirli? Nella bozza di revisione della GT 26, l’ISPRA tende ad adottare il sistema di classificazione proposto dall’International Atomic Energy Agency (IAEA), che divide in sei categorie le tipologie dei rifiuti, il doppio di quelle attualmente previste. “Una classificazione corretta, ma forse non adatta all’l’Italia dove l’eccesso di regolamentazione e il difetto di controlli può favorire leviolazioni”. A spiegarlo è proprio Massimo Scalia, contattato dalfattoquotidiano.it. “Una classificazione più specifica è immediatamente adatta a Paesi che hanno sviluppato intensivamente l’energia nucleare e che si trovano quindi con uninventario di rifiuti molto più consistente del nostro e soprattutto stanno progettando o hanno realizzato diverse tipologie di deposito per le diverse categorie di rifiuti radioattivi”. E non è il caso Italia, dove la procedura di localizzazione del deposito nazionale, in applicazione di un decreto del 2010, si basa ancora sulla vecchia Guida e dunque prevede solo due distinte destinazioni, per rifiuti di II e III categoria.
Sei soluzioni. Troppe soluzioniRifiuti, categorie. Perché sei potrebbero costituire un problema? “La classificazione oggi in vigore individua nelle scorie di  categoria I i rifiuti radioattivi che hanno un tempo di dimezzamento minimo, si estinguono subito e in capo a pochi giorni possono essere trattati come rifiuti speciali e non necessitano di particolari cautele o presidi sanitari. La scoria di seconda categoria è un rifiuto radioattivo che opportunamente cementato e messo in bidone produce un materiale il cui tempo di dimezzamento è 30 anni. Ciò implica che, in virtù della legge del decadimento radioattivo, in capo a dieci volte questo tempo, cioè 300 anni, il livello di radioattività si riduce a quello presente naturalmente nella crosta terrestre: le scorie sono neutralizzate. La terza categoria sono le scorie ad elevata intensità e tempi di vita lunghissimi, si intende da decine di migliaia ai milioni di anni. Ovviamente sono sempre minime dal punto di vista volumetrico ma richiedono una particolare attenzione. Su questa, al momento, non c’è una risposta tecnicamente accettabile”.
Ecco allora l’elemento di preoccupazione: “Con una classificazione su sei livelli di radioattività una parte di scorie con tempi di dimezzamento decisamente più lunghi potrebbe essere conferita alla cementazione, costituendo una sorta di ‘impurità’ che spingerebbe oltre i trecento anni il tempo per la loro neutralizzazione e costituirebbe una difficoltà in più nella progettazione del deposito”, avvertono Parisi e Scalia. “Se il 98% ha una decadenza in capo a 10 anni ma il 2% a mille, non è più scontato che quel 2% finisca automaticamente nella categoria a massima protezione, la terza della vecchia classificazione”. L’errore e la violazione, rimessi agli stessi operatori industriali, avrebbero margini molto maggiori. Un po’ come capita nei condomini per la separazione di umido, vetro e carta. Solo che il “rischio” non è una multa agli inquilini.