A volte superano la bufera e riprendono a
funzionare. A volte si inceppano. Con la storia
dell’Ilva di Taranto, sotto processo dal 2012,
inizia il nostro viaggio nei sistemi economici
e affaristici sopravvissuti alle inchieste
Il governo cerca almeno 3 miliardi per tentare il salvataggio
dell’acciaieria pugliese. Con due sole certezze. La prima: pochi
credono che l’impianto abbia un futuro. La seconda: comunque vada
i soldi dei contribuenti finiranno alle banche. Intanto le cokerie
continuano ad avvelenare l’aria e la terra, mentre la grande bonifica
sta partendo – dopo tre anni di promesse – in dosi omeopatiche
di Giorgio Meletti
inviato a Taranto
B
asta andare a Taranto e farsi
una passeggiata lungo la ventina
di chilometri degli invalicabili
recinti dell’Ilva, con i
suoi 1500 ettari –le dimensioni
di una media città italiana –
l’acciaieria più grande d'Europa. Chiunque capirebbe
che i politici, burocrati e manager impegnati
ogni giorno nelle concitate riunioni romane
sul destino dell'azienda sono tessitori di un grande
inganno. Basta guardare la gigantesca rete che
Emilio Riva, il tyco o n siderurgico morto l'anno
scorso, fece issare attorno al parco minerali per
proteggere il quartiere Tamburi dalle polveri cancerogene
alzate dal vento. Può una rete fermare la
polvere? “Sì, se il calibro della rete è inferiore a
quello delle polveri”, spiega un autorevole ingegnere
cercando di non ridere. Il calibro delle particelle
pm10 è inferiore a dieci millesimi di millimetri:
l'unico modo di proteggere il Tamburi sarebbe
stato fare al parco minerali un cappottino di
Goretex su misura. La taglia è 75 ettari.
A Taranto la rete per fermare la polvere è la misura
di tutto. Può una popolazione sentirsi dire
che la rete fermerà la polvere senza perdere il controllo
dei nervi? Sì. La maggioranza dei tarantini
da decenni tace e subisce la logica folle della storia.
L’Ilva sta morendo e il governo, fingendo di curarla,
ne accompagna distrattamente l’agonia.
“Torno a Natale”, aveva detto Matteo Renzi a settembre,
nel suo unico frettoloso passaggio, poi è
andato a sciare a Courmayeur. La messa in scena
ha un solo risultato possibile, un ingente passaggio
di denaro dalle tasche dei contribuenti a quelle
dei creditori dell’Ilva in dissesto finanziario, in
primo luogo naturalmente le banche.
L’agonia clandestina,
come in un racconto di Buzzati
Viene in mente Sette piani, il racconto di Dino
Buzzati da cui Ugo Tognazzi trasse un celebre
film, Il fischio al naso. Ricoverato per un banale
controllo, l'industriale lombardo, accompagnato
da sorrisi e frasi rassicuranti, parte dal piano terra
e viene spostato gradualmente fino al settimo, dove
morirà. Così l’Ilva da tre anni attraversa un incubo
di piani di risanamento, decreti legge, commissariamenti
e subcommissariamenti, e ogni
volta qualcuno annuncia che è la volta buona. Intanto
la fabbrica, formalmente sotto sequestro,
cade letteralmente a pezzi. Al suo capezzale un
plotone di medici pietosi: tre commissari governativi,
tre custodi giudgiudiziari, un custode amministrativo,
un commissario per le bonifiche, e con
loro Andrea Guerra, consigliere per l’industria di
Renzi. Dovrebbero risolvere un’equazione impossibile:
tenere in vita un’azienda che inquina,
perde 30 milioni al mese, viene abbandonata dai
clienti e ha 3 miliardi di debiti.
Il 26 luglio 2012 intervenne la magistratura arrestando
lo stato maggiore dell’Ilva, a cominciare
dai Riva. La fabbrica fu messa sotto sequestro come
si toglie la pistola dalle mani del serial killer, per
impedire la prosecuzione del reato. Non fu uno
sconsiderato blitz ecologista. Le indagini andavano
avanti da anni. Da mesi il Noe di Lecce (Nucleo
Operativo Ecologico), cioè i Carabinieri e
non Greenpeace, rilevava quantità sconcertanti
di veleni che l’acciaieria produceva con arrogante
noncuranza. Era il Noe a chiedere al procuratore
della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio, urgenti
“misure cautelari”. Sebastio aveva già ottenuto
due volte dai giudici la condanna di Riva per
inquinamento, nel 2002 e nel 2007. L’Ilva non è un
paradiso. In vent’anni ha avuto 50 incidenti mortali
in azienda. Tuttora premia con un buono acquisto
da 100 euro all’Auchan gli operai dei reparti
con un basso numero di “infortuni indennizzati”.
E siccome è difficile credere che un operaio
abbia bisogno dell’incentivo per stare attento
a non rompersi un braccio, è possibile che quel
premio incoraggi le mancate denunce.
Non lavorava in paradiso neppure Francesco
Zaccaria, gruista volato in mare da 60 metri con la
sua cabina nell’area Impianti Marittimi il 28 novembre
2012. Le Tv dettero la colpa alla tromba
d’aria “assassina” che quel giorno travolse Taranto,
ma al processone “Ambiente svenduto” sono
imputati anche alcuni dirigenti accusati di omicidio
colposo per la morte di Zaccaria.
Nell’estate 2012, furono però messe in scena la
commedia della sorpresa e quindi la farsa
dell’emergenza, condizione necessaria per il passo
logicamente successivo: non fare niente.
L’emergenza era costituita dai magistrati che
“all’improvviso” dicevano basta al reato di inquinamento,
flagrante e sfrontato. “Non si può uccidere
così un’azienda decisiva per il Paese”, tuonavano
gli industrialisti. “Bisogna salvare 17 mila
posti di lavoro”, urlavano sindacalisti di ogni colore.
I magistrati che avevano deciso il sequestro
degli impianti inutilmente provarono a difendersi
dall’accusa di seminare miseria: come arrendersi
a quel malinteso senso di responsabilità secondo
il quale, a fronte di una soddisfacente dose
di prosperità economica, si può fissare una quantità
accettabile di malattia e morte? Il partito industrialista
allora guidato dal ministro dell’Am -
biente Corrado Clini (in seguito arrestato per altro
tipo di inquinamento, quello dei suoi conti in
banca) sancì l’ovvio: lavoro e salute possono convivere.
La traduzione pratica del sacrosanto prinC’è
un grande inganno
dietro l’agonia dell’I l va
cipio è stata che si possono fare gli interventi di
risanamento degli impianti compatibili con il
conto economico. Cioè il poco o niente fatto da
Riva dal 1995 al 2012. L’importante è sfornare a
getto continuo piani, progetti, protocolli d'intesa,
lettere d'intenti, appendici, atti aggiuntivi, note a
margine. Se potessimo monetizzare ogni nuovo
nome per pezzi di carta inutili, l’Italia non avrebbe
debito pubblico.
Giovedì 12 febbraio, il sindaco di Taranto, Ippazio
Stefano, imputato assieme ai Riva e ai loro presunti
complici nel processo “Ambiente svenduto”,
ha offerto alla città un saggio mirabile dell’ar -
te dell’inerzia. Con il commissario alle bonifiche
Vera Corbelli ha solennemente firmato un nuovo
protocollo d'intesa che finalmente darà il via alle
bonifiche. Non che mancasse un accordo tra
commissario e Comune, ma Corbelli ha detto che
quello firmato dal suo predecessore non funzionava.
“Mi sono insediata lo scorso agosto e ho
cominciato a comprendere la situazione di Taranto”,
ha detto Corbelli che è forestiera. Molto
determinata: “Il governo vuole investire, il premier
Renzi l’ha detto: partiamo da Taranto”. Il
sindaco, parimenti focalizzato sull'operatività, ha
detto: “Basta con gli impegni, adesso passiamo ai
fatti concreti”. Dopo tre anni, era ora.
Partono le bonifiche,
in dosi omeopatiche
Ed ecco i fatti concreti. Dei 110 milioni stanziati
tre anni fa dal governo per le bonifiche fuori del
perimetro aziendale finalmente si spenderanno i
primi due: bonifica delle aiuole del quartiere
Tamburi, quelle da anni vietate al gioco dei bimbi.
Su un totale di 3,6 ettari (lo 0,1 per cento della
superficie da bonificare), verranno sostituiti con
terra pulita i primi 30 centimetri di terreno. Un
milione di metri cubi di terra inquinata, a 2 euro al
metro cubo. Si può stimare che a Taranto uguale
trattamento lo meritino un paio di miliardi di metri
cubi di terra inquinata: fanno 4 miliardi di euro.
A chi ha chiesto che senso abbia bonificare
mentre l’Ilva continua a spargere i suoi veleni, i
tecnici del Comune hanno risposto che tanto, per
tornare all’inquinamento di oggi, ci vorrebbero
150 anni alle emissioni attuali: centocinquanta anni. Il fatto quotidiano 19 febbraio 2015
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