giovedì 19 febbraio 2015

C’è un grande inganno dietro l’agonia dell’I l va

Quel che resta di un sistema I grandi scandali giudiziari interrompono corruzione, malaffare e associazioni a delinquere. Ma la vita delle imprese, le reti di potere e l’intreccio degli interessi proseguono
A volte superano la bufera e riprendono a funzionare. A volte si inceppano. Con la storia dell’Ilva di Taranto, sotto processo dal 2012, inizia il nostro viaggio nei sistemi economici e affaristici sopravvissuti alle inchieste
 Il governo cerca almeno 3 miliardi per tentare il salvataggio dell’acciaieria pugliese. Con due sole certezze. La prima: pochi credono che l’impianto abbia un futuro. La seconda: comunque vada i soldi dei contribuenti finiranno alle banche. Intanto le cokerie continuano ad avvelenare l’aria e la terra, mentre la grande bonifica sta partendo – dopo tre anni di promesse – in dosi omeopatiche
di Giorgio Meletti inviato a Taranto B asta andare a Taranto e farsi una passeggiata lungo la ventina di chilometri degli invalicabili recinti dell’Ilva, con i suoi 1500 ettari –le dimensioni di una media città italiana – l’acciaieria più grande d'Europa. Chiunque capirebbe che i politici, burocrati e manager impegnati ogni giorno nelle concitate riunioni romane sul destino dell'azienda sono tessitori di un grande inganno. Basta guardare la gigantesca rete che Emilio Riva, il tyco o n siderurgico morto l'anno scorso, fece issare attorno al parco minerali per proteggere il quartiere Tamburi dalle polveri cancerogene alzate dal vento. Può una rete fermare la polvere? “Sì, se il calibro della rete è inferiore a quello delle polveri”, spiega un autorevole ingegnere cercando di non ridere. Il calibro delle particelle pm10 è inferiore a dieci millesimi di millimetri: l'unico modo di proteggere il Tamburi sarebbe stato fare al parco minerali un cappottino di Goretex su misura. La taglia è 75 ettari. A Taranto la rete per fermare la polvere è la misura di tutto. Può una popolazione sentirsi dire che la rete fermerà la polvere senza perdere il controllo dei nervi? Sì. La maggioranza dei tarantini da decenni tace e subisce la logica folle della storia. L’Ilva sta morendo e il governo, fingendo di curarla, ne accompagna distrattamente l’agonia. “Torno a Natale”, aveva detto Matteo Renzi a settembre, nel suo unico frettoloso passaggio, poi è andato a sciare a Courmayeur. La messa in scena ha un solo risultato possibile, un ingente passaggio di denaro dalle tasche dei contribuenti a quelle dei creditori dell’Ilva in dissesto finanziario, in primo luogo naturalmente le banche. L’agonia clandestina, come in un racconto di Buzzati Viene in mente Sette piani, il racconto di Dino Buzzati da cui Ugo Tognazzi trasse un celebre film, Il fischio al naso. Ricoverato per un banale controllo, l'industriale lombardo, accompagnato da sorrisi e frasi rassicuranti, parte dal piano terra e viene spostato gradualmente fino al settimo, dove morirà. Così l’Ilva da tre anni attraversa un incubo di piani di risanamento, decreti legge, commissariamenti e subcommissariamenti, e ogni volta qualcuno annuncia che è la volta buona. Intanto la fabbrica, formalmente sotto sequestro, cade letteralmente a pezzi. Al suo capezzale un plotone di medici pietosi: tre commissari governativi, tre custodi giudgiudiziari, un custode amministrativo, un commissario per le bonifiche, e con loro Andrea Guerra, consigliere per l’industria di Renzi. Dovrebbero risolvere un’equazione impossibile: tenere in vita un’azienda che inquina, perde 30 milioni al mese, viene abbandonata dai clienti e ha 3 miliardi di debiti. Il 26 luglio 2012 intervenne la magistratura arrestando lo stato maggiore dell’Ilva, a cominciare dai Riva. La fabbrica fu messa sotto sequestro come si toglie la pistola dalle mani del serial killer, per impedire la prosecuzione del reato. Non fu uno sconsiderato blitz ecologista. Le indagini andavano avanti da anni. Da mesi il Noe di Lecce (Nucleo Operativo Ecologico), cioè i Carabinieri e non Greenpeace, rilevava quantità sconcertanti di veleni che l’acciaieria produceva con arrogante noncuranza. Era il Noe a chiedere al procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio, urgenti “misure cautelari”. Sebastio aveva già ottenuto due volte dai giudici la condanna di Riva per inquinamento, nel 2002 e nel 2007. L’Ilva non è un paradiso. In vent’anni ha avuto 50 incidenti mortali in azienda. Tuttora premia con un buono acquisto da 100 euro all’Auchan gli operai dei reparti con un basso numero di “infortuni indennizzati”. E siccome è difficile credere che un operaio abbia bisogno dell’incentivo per stare attento a non rompersi un braccio, è possibile che quel premio incoraggi le mancate denunce. Non lavorava in paradiso neppure Francesco Zaccaria, gruista volato in mare da 60 metri con la sua cabina nell’area Impianti Marittimi il 28 novembre 2012. Le Tv dettero la colpa alla tromba d’aria “assassina” che quel giorno travolse Taranto, ma al processone “Ambiente svenduto” sono imputati anche alcuni dirigenti accusati di omicidio colposo per la morte di Zaccaria. Nell’estate 2012, furono però messe in scena la commedia della sorpresa e quindi la farsa dell’emergenza, condizione necessaria per il passo logicamente successivo: non fare niente. L’emergenza era costituita dai magistrati che “all’improvviso” dicevano basta al reato di inquinamento, flagrante e sfrontato. “Non si può uccidere così un’azienda decisiva per il Paese”, tuonavano gli industrialisti. “Bisogna salvare 17 mila posti di lavoro”, urlavano sindacalisti di ogni colore. I magistrati che avevano deciso il sequestro degli impianti inutilmente provarono a difendersi dall’accusa di seminare miseria: come arrendersi a quel malinteso senso di responsabilità secondo il quale, a fronte di una soddisfacente dose di prosperità economica, si può fissare una quantità accettabile di malattia e morte? Il partito industrialista allora guidato dal ministro dell’Am - biente Corrado Clini (in seguito arrestato per altro tipo di inquinamento, quello dei suoi conti in banca) sancì l’ovvio: lavoro e salute possono convivere. La traduzione pratica del sacrosanto prinC’è un grande inganno dietro l’agonia dell’I l va cipio è stata che si possono fare gli interventi di risanamento degli impianti compatibili con il conto economico. Cioè il poco o niente fatto da Riva dal 1995 al 2012. L’importante è sfornare a getto continuo piani, progetti, protocolli d'intesa, lettere d'intenti, appendici, atti aggiuntivi, note a margine. Se potessimo monetizzare ogni nuovo nome per pezzi di carta inutili, l’Italia non avrebbe debito pubblico. Giovedì 12 febbraio, il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, imputato assieme ai Riva e ai loro presunti complici nel processo “Ambiente svenduto”, ha offerto alla città un saggio mirabile dell’ar - te dell’inerzia. Con il commissario alle bonifiche Vera Corbelli ha solennemente firmato un nuovo protocollo d'intesa che finalmente darà il via alle bonifiche. Non che mancasse un accordo tra commissario e Comune, ma Corbelli ha detto che quello firmato dal suo predecessore non funzionava. “Mi sono insediata lo scorso agosto e ho cominciato a comprendere la situazione di Taranto”, ha detto Corbelli che è forestiera. Molto determinata: “Il governo vuole investire, il premier Renzi l’ha detto: partiamo da Taranto”. Il sindaco, parimenti focalizzato sull'operatività, ha detto: “Basta con gli impegni, adesso passiamo ai fatti concreti”. Dopo tre anni, era ora. Partono le bonifiche, in dosi omeopatiche Ed ecco i fatti concreti. Dei 110 milioni stanziati tre anni fa dal governo per le bonifiche fuori del perimetro aziendale finalmente si spenderanno i primi due: bonifica delle aiuole del quartiere Tamburi, quelle da anni vietate al gioco dei bimbi. Su un totale di 3,6 ettari (lo 0,1 per cento della superficie da bonificare), verranno sostituiti con terra pulita i primi 30 centimetri di terreno. Un milione di metri cubi di terra inquinata, a 2 euro al metro cubo. Si può stimare che a Taranto uguale trattamento lo meritino un paio di miliardi di metri cubi di terra inquinata: fanno 4 miliardi di euro. A chi ha chiesto che senso abbia bonificare mentre l’Ilva continua a spargere i suoi veleni, i tecnici del Comune hanno risposto che tanto, per tornare all’inquinamento di oggi, ci vorrebbero 150 anni alle emissioni attuali: centocinquanta anni. Il fatto quotidiano 19 febbraio 2015

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