martedì 27 gennaio 2015

Auschwitz 70 anni dopo La memoria rende liberi IL 27 GENNAIO 1945 I SOVIETICI ENTRAVANO NEL CAMPO DI CONCENTRAMENTO: TRA DOLO R E FREDDO, MORTE, TRAGEDIE E RICORDI. SONO SOPRAVVISSUTE “APPENA 300 PERSONE – S P I EG A IL DIRETTORE DEL CAMPO, PIOTR CHYVINSKI – SONO IL PEZZO PIÙ PREZIOSO CHE ABBIAMO”

i Pierfrancesco Curzi Auschwitz (Oswiecim, Polonia) A d Auschwitz, c’era la neve, il fumo saliva lento... ”, recita una nota canzone. Oggi, come ieri, la neve cade fitta a Oswiecim – cittadina della Slesia polacca, meno di 40mila abitanti, a un’ora di macchina da Cracovia e da Ostrava in Repubblica Ceca – e ammanta di fulgore lattiginoso anche gli orrori sommersi. Non smette da tre giorni, ma qui la vita va avanti lo stesso. Il nome della località nel sud della Polonia suona estraneo a molti. Tradotto alla tedesca cambia tutto: Auschwitz. Sede di tre dei 71 principali campi di concentramento tirati su dal Reich tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. Auschwitz I (detenzione), Auschwitz II-Birkenau (sterminio) e Buna-Monowitz (lavoro), quest’ultimo quasi sconosciuto, ma fondamentale per la strategia tedesca dell’epoca. Dai cancelli del campo di lavoro, sede dell’impianto Buna-Werke, di proprietà del colosso chimico tedesco I.G. Farben, destinato alla produzione di gomma (buna) sintetica, a fine gennaio del 1945 è uscito, da uomo libero ma profondamente segnato, Primo Levi. Autore di due testi fondamentali per la ricostruzione dell’Olocausto, Se questo è un uomo e La tregua. Quel campo oggi non esiste più, o meglio non è stato recuperato e trasformato nel progetto museale di Auschwitz, più di un milione e mezzo di visitatori nel 2014, record assoluto. NIENTE DISCORSI politici. Per una volta i microfoni irradieranno soltanto le voci, seppur flebili e fiaccate dal tempo, dei sopravvissuti del campo di Auschwitz: “Ne sono rimasti appena 300 – spiega il direttore del campo, Piotr Chyvinski –, sono il pezzo più prezioso che abbiamo. Il 70° anniversario della liberazione del campo rappresenta una svolta. Forse sarà l’ultimo con numero tondo in cui potremo ascoltare le loro parole, i messaggi per le future generazioni. Glielo dobbiamo. Martedì (oggi) arriveranno re, regine, capi di Stato, di governo, ministri da 40 Paesi, e avranno il privilegio di osservare e ascoltare. Sì, ci sarà anche l’Italia, che dal 2014 si è aggiunta agli altri Paesi per donare 1 milione di euro alla Fondazione che tiene in vita il campo e la memoria”. Renzi, impegnato nelle consultazioni in vista dell’elezione del Presidente della Repubblica, non sarà presente, al suo posto il Presidente del Senato, Piero Grasso. Fino al 2013 il nostro Paese non aveva tirato fuori un euro a favore della Fondazione. Eppure l’Italia occupa la quarta casella come numero di visitatori, dietro agli statunitensi, ma davanti ai tedeschi. In questi giorni di vigilia dell’anniversario numero 70, in cui si celebra la Giornata della Memoria, di connazionali ne arrivano tantissimi. Si aggiungono alla babele di lingue che si possono ascoltare girando per i blocchi del campo, condotti e resi edotti dalle guide. A migliaia soltanto domenica. Nonostante la neve e il freddo, le strade ghiacciate. Condizioni ideali per avere quanto meno un’idea, seppur lontana, di cosa possano aver vissuto i prigionieri di Auschwitz-Birkenau. A gennaio la temperatura è fissa ben sotto lo zero, il sole si va a nascondere per intere settimane dietro nuvole basse e pesanti. Condizioni al limite per qualsiasi umano, specie per chi è finito nel campo. Ebrei da ogni parte del continente, ma anche normali cittadini polacchi, i primi a riempire il campo assieme ai prigionieri di guerra sovietici, sinti e rom. Strappati alle loro vite e disumanizzati. La maggior parte dentro i campi ha resistito poche settimane, a volte pochi giorni. L’ingresso del campo fa salire subito un nodo alla gola: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. La scritta passata alla storia ormai, rubata alcuni anni fa e ritrovata, rivendicata dal fabbro che l’ha realizzata, invano. Proprio davanti alla sbarra, i comandanti del campo, Rudolf Hess in primis, avevano voluto una piccola orchestra che, durante il giorno, suonasse marce militari; specie al mattino, quando i detenuti si recavano al lavoro. Gli edifici, i Block, sono stati pienamente recuperati e ospitano il grosso del Museo. Intere pareti tappezzate con le foto dei detenuti, le   sezioni legate allo smistamento, alle torture, ai depositi. Cumuli di spazzole, pennelli da barba, scarpe, abiti, protesi, occhiali, capelli, scodelle. Una teca protegge centinaia di barattoli che contenevano lo Zyklon B, il gas velenoso diffuso dalle docce del campo e capace di uccidere in pochi secondi, prima che i corpi fossero bruciati nei quattro crematori principali del campo II. Si arriva ai Block 10 e 11, i blocchi della morte. Qui, in un cortile interno, addossati al muro della morte, avvenivano le esecuzioni. La neve soffice arriva quasi a coprire i cartelli che intimavano ai detenuti di non procedere oltre, ficcati nel terreno. Eppure le strade interne del campo sono piene di gente, in silenzio, sconvolti, quasi a rispettare l’atmosfera resa ovattata dal manto nevoso. Si aggirano tra i padiglioni, scioccati e voraci di conoscenza. Pochi entrano in quello dedicato ai sinti e ai rom, quasi esistessero deportati e vittime di serie A e di serie B. UNA NAVETTA conduce dal campo principale a Birkenau II, presso la località di Brzezinka (bosco di betulle), a 3 km. I Block qui sono a un piano, simmetricamente appoggiati in mezzo a una enorme spianata. È il campo di sterminio, il campo dei forni e della Judenrampe, il binario dove arrivavano i convogli carichi di ebrei pronti, seppur ancora inconsapevoli, a un autentico martirio. I treni passavano sotto la galleria, sovrastata da una torre in pietra, una delle immagini più tristemente note dello sterminio di Auschwitz. Ancora oggi quell’immagine toglie il fiato. ‘Auschwitz: solo quando nel mondo a tutti gli uomini sarà riconosciuta la dignità umana, solo allora potrete dimenticarci’, recita la targa affissa al sacrario di Marzabotto. Per non dimenticare, affinché nulla del genere abbia a ripetersi. il fatto quotidiano 27 gennaio 2014

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