mercoledì 25 giugno 2014

Locali e slot machine: le mani della 'ndrangheta su Roma

di Andrea Palladino

La Direzione distrettuale antimafia svela il piano segreto del boss Girolamo Molè: la conquista economica della Capitale per riorganizzare l'ala mililitare 

Locali e slot machine: le mani della 'ndrangheta su Roma
E’ terra loro il Lazio. Il luogo discreto dove investire, gonfiando a dismisura la cassa dei clan. Il ritiro strategico, la retrovia da usare per riorganizzarsi, per poi tornare nella Piana di Gioia Tauro, più forti di prima.

Questo era il piano di Girolamo Molè, detto Momo, il capocosca che dal carcere ordinava agli affiliati le strategie dopo l’omicidio per faida di Rocco Molè. Quella morte la chiamava “lo schiaffo”, un affronto da restituire al momento opportuno. Con pazienza, chiudendosi a riccio, mettendo al sicuro i ventenni, eredi della ndrina. E investendo, ripulendo i soldi dove è possibile diventare invisibili, sapendo che “la potenza militare della famiglia è direttamente rapportata a quella economica". Puntando direttamente sul business sicuro dei locali e, soprattutto, delle slot machine. Macchine in grado di macinare utili presentabili, puliti, non tracciabili. Un asse Gioia Tauro - Roma mantenuto in piedi anche grazie ad una rete di telecamere, in grado di mostrare in tempo reale agli uomini della Ndrina cosa avveniva nei locali controllati.
Dalle intercettazioni: 'Abbiamo diritto di prelazione in un certo modo...'

L’operazione del Ros dei carabinieri di martedì mattina ha chiuso tre anni di indagine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Tutto era partito da un albergo dei castelli romani - a sud della capitale - il Villavecchia, gestito da imprenditori di Colleferro, legati alle famiglie di ‘ndrangheta della piana di Gioia Tauro.

Cinque anni fa il locale fu sequestrato (operazione “Maestro”), mostrando come per la ‘ndrangheta il territorio romano era un territorio strategico. E come le cosche fossero in grado di rendersi invisibili, grazie ad alleanze compiacenti, che passavano attraverso ambienti insospettabili para massonici. Da quel momento i magistrati calabresi non hanno più mollato la presa, coordinandosi con i colleghi romani guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone. Hanno seguito i soldi, le aziende controllate attraverso prestanome, ricostruendo con pazienza gli schermi societari e i trucchi contabili. Fermare i soldi era strategico per bloccare l’ala militare, pronta ad agire.

Giuseppe Galluccio era - per la Dda - l’uomo della cosca Molè che aveva in mano i fili degli affari romani, “il vero e proprio braccio operativo nel settore delle slot machine”. Condannato in primo e secondo grado - già nel 1994 gli era stata contestato di essere “intraneo” alla Ndrina dei Molè - è stato recentemente assolto dalla Cassazione “per un mero difetto formale”, una mancata notifica ad un difensore. Dalla sua casa in Calabria gestiva bar, ristoranti e il giro delle slot, utilizzando un sistema di telecamere installate nei locali. Un sistema che, per il Gip, faceva “arrossire le migliori teleassistenze di cui oggi la P.A. dispone”.

La rete delle slot controllata dai Molè è vastissima. Due società coinvolte nelle indagini - la Power Play e la MD Trasporti - avevano, per gli inquirenti, piazzato videopoker in locali a Roma, Latina, Monterotondo, Tivoli, Velletri, Fiumicino e Guidonia. E poi pub, ristoranti, come il “Pozzo dei desideri” di Tivoli. E ancora, imprese sul litorale romano, a Ostia, al centro della recente indagine della procura di Roma “Nuova Alba”, dove si incrociano i destini delle mafie siciliane, campane e della capitale.

Qui Giuseppe Galluccio chiamò Rocco Femia - il boss delle slot a Modena, noto anche per aver minacciato il giornalista dell'Espresso Giovanni Tizian - per risolvere i contrasti che sorgevano nella gestione dei videopoker. Una rete collaudata, solida, attiva sull’intero territorio romano, che si spingeva fino a Terni, con investimenti che stavano entrando anche nel settore della sanità privata.

Intanto la giovane leva della Ndrina di Gioia Tauro cresceva, si preparava a prendere in mano l’organizzazione, lasciata dal “capo carismatico” Girolamo Molè, recluso in carcere. Al figlio Rocco - durante i colloqui - il capo cosca spiegava: “E’ finito di giocare ... non esiste il gioco … mi dispiace ... mi dispiace ma non c'è gioco … sto puntando tutto su di te (…) siccome c'è questo problema dobbiamo lasciare perdere il giocare ... dobbiamo vedere solo la famiglia e basta”. La conferma - per i magistrati - che la cosca di Gioia Tauro - oggi in contrasto con i Piromalli - è più viva che mai. Lanciata verso la conquista economica della capitale.http://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/06/24/news/locali-e-slot-machine-le-mani-della-nadrangheta-su-roma-1.170699

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