giovedì 20 ottobre 2011

il Pacifico sta inghiottendo l'isola tropicale di Tuvalu

Valentina Perugini
GLOBAL WARMING. Il punto più alto dell’isola nel Pacifico è soltanto cinque metri sopra il livello delle acque e la maggior parte del territorio è a meno di un metro. L’unica via resta la fuga.

A Funafuti e in tutta l’isola di Tuvalu, nell’Oceano Pacifico, in cui abitano poco più di 10.000 persone, non piove da novembre 2010. La siccità è attribuita principalmente a La Niña, il ciclone tropicale che colpisce ciclicamente la zona, ma il problema è connesso strettamente al cambiamento climatico e all’innalzamento del livello del mare, che provoca forti disagi e preoccupazioni fra gli abitanti. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza alla fine del mese scorso: il punto più alto dell’isola è soltanto cinque metri sopra il livello del mare e la maggior parte del territorio è a meno di un metro.

Vista dall’alto sembra quasi una lingua di costa staccata dalla terraferma. L’atollo si accartoccia attorno una grande laguna e la parte più ampia da una costa all’altra misura 400 metri. Non ci sono fiumi o ruscelli e la terra, non essendo disposta all’agricoltura, non permette grandi coltivazioni. Saufatu Sapo’aga, uno degli storici primi ministri di Tuvalu, ha dichiarato che il cambiamento climatico, per questo Paese «non è diverso da una lenta ed insidiosa forma di terrorismo». Roy Lameko, 62 anni, ha visto la siccità andare e venire, ma sostiene che «niente è mai stato grave come oggi». Lui, sua moglie e il figlio non lavano i loro vestiti da settimane. Si fanno tutti il bagno vestiti nel mare. «Dopo ci sciacquiamo con una tazza d’acqua dolce». Lameko ci confida che la manciata di coltivazioni (cocco, frutto dell’albero del pane e pulaka) su cui si poggia l’economia dell’isola non basta e le persone sono costrette a dare fondo ai propri risparmi per acquistare cibi d’importazione, più costosi. Lameko ha due figli che vivono ad Auckland e gli spediscono mensilmente del denaro. «Non so se ritorneranno. Vogliono che noi andiamo là, ma il problema è il denaro – dice fra le lacrime – . Denaro e acqua sono i nostri unici problmei». Secondo Vincenzo Ferrara, climatologo dell’Enea (agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) «bisogna ridurre le emissioni che producono l’effetto serra, anzi, azzerarle, per frenare il cambiamento climatico. Questo - prosegue l’esperto - non arresta il rischio, lo rallenta. I cambiamenti climatici già in corso andranno avanti, soprattutto sul fronte dell’innalzamento del livello del mare». Per rallentarli fino ad arrivare ad un livello accettabile «occorre mantenere l’aumento della temperatura terrestre entro un grado, un grado e mezzo».

Sulla piccola isola del Pacifico i Paesi industrializzati hanno lasciato diverse tracce. Tra queste c’è sicuramente la pista di atterraggio che scorre lungo la spina dorsale di Tuvalu, le cui dimensioni sono fuori da ogni proporzione con il territorio che la circonda.
Il piano di scorrimento, costruito durante la seconda guerra mondiale dagli Stati Uniti, ha utilizzato materiali prelevati direttamente dal terreno attraverso un sistema di traforazione detto “borrow pits”, pungendo letteralmente il suolo. Le buche sono ora ferite aperte, riempite con un miscuglio di acqua salata e rifiuti. Ai bordi dei “laghi” ci sono dozzine di capanne dove abitano i più poveri del paese: una tossica trasformazione di un angolo di paradiso. Il governo di Tuvalu ha richiesto da lungo tempo alle potenze industrializzate di tagliare drasticamente le emissioni di CO2 e compensare quegli Stati che nel mondo subiscono in modo più diretto i cambiamenti climatici.
Come le Maldive nell’Oceano Indiano, il Tuvalu è un simbolo del prezzo che il mondo deve pagare di fronte a questo problema.

L’environment act di Tuvalu del 2008 obbliga i ministeri ad «elevare il livello di allerta in tutto il mondo per le implicazioni del cambiamento climatico». Il presidente del comitato nazionale di Tuvalu per i disastri Pusinelli Laafai lo ha detto chiaramente: « Crediamo che i paesi ricchi abbiano l’obbligo di aiutarci, se non ricostruendo quello che ormai è stato danneggiato, almeno assistendoci in qualche modo, per mitigare gli effetti di quello che hanno causato loro». Laafai è comunque fiducioso e crede che lo stato non arriverà alla morte e non dovrà trasferirsi sulla terraferma come proposto da molti scienziati. «Staremo qui, e tenteremo di affrontare i nostri problemi, li risolveremo in qualche modo, anche se sarà difficile e costoso».

«Si sta facendo poco – continua Ferrara - Il problema è che dobbiamo cambiare completamente il paradigma di riferimento. Adesso è sul Pil, sul flusso di denaro che si misura tutto. Ma questo invece di produrre benessere, lo ha aumentato a chi già stava bene, e allo stesso tempo ha aggravato il malessere a chi stava male. Nonostante il Pil stia crescendo, a livello mondiale aumentano anche la povertà, le malattie, la mortalità infantile è in aumento, le discriminazioni razziali, di sesso, etc. Quindi misurare attraverso il Pil il livello di benessere è falso. Occorre impostare il paradigma in tutt’altro modo: attraverso una serie di fattori che indicano la qualità della vita delle persone, la qualità dell’ambiente in cui si vive e la qualità dello sviluppo. È su questo che bisogna puntare, non sullo sviluppo meramente economico. Allora i problemi si risolvono».

Nelly Semiola, un padre di famiglia, ci racconta che lui non andrà da nessuna parte; sa che molti dei suoi amici stanno programmando di partire, perché vogliono scappare dalla siccità, dalla povertà, dalla fragilità. «Io voglio che la mia vita sia qui – dice –. Sono cresciuto qui. Mi sono sposato qui. Qualsiasi cosa accadrà va bene. Se sopravvivremo, sopravvivremo. Se moriremo, moriremo».
http://www.terranews.it/news/2011/10/tuvalu-va-giu-nell%E2%80%99indifferenza-il-mare-la-sta-inghiottendo

Nessun commento:

Posta un commento